Medio Oriente. In Iraq il Tigri e l’Eufrate perdono acqua, i pesci si ammalano e i contadini fuggono dalle campagne. L’emergenza idrica rischia di diventare una crisi sociale. Con lo zampino della Turchia
I masgouf, le carpe, girano sulla brace fuori dai ristoranti da Erbil a Baghdad, dal Kurdistan iracheno alla capitale federale. Sono uno dei piatti più amati e venduti per le strade di ogni regione del paese, perché il Tigri e l’Eufrate l’attraversano tutto. Dalla Turchia passando per la Siria fino a sfociare nel Golfo Persico, i due fiumi sono tra le ancestrali ricchezze di quella che ognuno di noi ha imparato a conoscere come la Mezzaluna fertile.
QUELLA RICCHEZZA oggi è asfittica, la Mezzaluna culla della civiltà è sempre meno verde. L’ultimo allarme lo hanno lanciato proprio i masgouf: a migliaia ne sono morti lungo tutto l’Eufrate, un decesso misterioso di cui ha discusso una settimana fa anche il parlamento iracheno. La morte è un giallo, ma non poi così tanto: gli elevati tassi di inquinamento e la scarsità d’acqua avrebbero provocato malattie letali per i pesci.
Poco tempo prima, tra settembre e ottobre, un altro monito: le acque di Bassora contaminate hanno intasato gli ospedali, con oltre 100mila ricoverati in poche settimane, compreso l’ambasciatore dell’Unione europea in Iraq, Ramon Blecua. Bassora paga l’inquinamento del fiume Shatt al-Arab («il fiume degli arabi») – che altro non è che il punto di incontro del Tigri e l’Eufrate – dovuto agli scarichi industriali e all’aumento di salinità del Golfo persico.
La contaminazione ha infiammato le già dure proteste della popolazione della città a sud di Baghdad per l’assenza di servizi e l’alta disoccupazione, con i manifestanti che hanno dato alle fiamme gli uffici di alcuni dei principali partiti iracheni. L’esercito, mandato dal governo a ristabilire la calma, ha sparato sulla folla uccidendo almeno 14 persone.
Il giallo delle carpe, in attesa di essere «risolto», ha già le sue vittime. I piscicoltori iracheni non nascondono la disperazione per il crollo della produzione che si tradurrà nell’immediato in un’impennata dei prezzi. Mohammad Ali Hamza al-Jumaili, di Mussayab, alla Reuters prospetta un raddoppio dei prezzi, 10mila dinari iracheni (7,3 euro) al chilo: «Gli sforzi di un intero anno sono andati sprecati. E abbiamo dovuto assumere altri lavoratori per rimuovere i pesci morti dalle vasche». Nella provincia di Babilonia, subito a sud di Baghdad, i piscicoltori individuano la causa della moria delle carpe negli scarichi chimici nell’Eufrate.
LE RAGIONI POTREBBE essere diverse, ma le tracce portano tutte verso lo stravolgimento del clima nella regione. Cambiamenti climatici, siccità e scarsità di pioggia, riduzione della portata dell’acqua bloccata dalle dighe costruite dalla Turchia alle sorgenti dei due fiumi, scarichi inquinanti in un paese dove la rete fognaria e la rete idrica non sono state mai realmente ricostruite dopo la guerra e l’invasione Usa del 2003.
L’immagine più potente arriva dalle paludi della Mesopotamia, zona acquitrinosa all’incontro dei due fiumi, dal 2016 patrimonio dell’umanità. È il più grande ecosistema paludoso dell’Eurasia occidentale, fertilissimo tanto da essere lavorato dagli Arab al-Anwar – gli arabi delle paludi discendenti dei sumeri – da oltre 5mila anni.
Quella comunità esiste ancora, 300mila persone, e oggi ha paura. La stessa paura che provarono negli anni Novanta quando, per punirli della loro partecipazione alle sollevazioni sciite, Saddam Hussein prosciugò il 90% delle paludi. «Ho visto i fiumi là, a nord – dice Rachid Jassim, uno degli anziani delle paludi e allevatore di bufali, al The Independent, dopo un viaggio nelle regioni settentrionali dell’Iraq – Sono pieni d’acqua. Non capisco perché non ci venga reindirizzata. Se la situazione resta questa, non sapremo cosa fare e dove andare. Io non conosco nessun altro luogo al di fuori delle paludi. Moriremo di fame».
LE PALUDI della Mesopotamia si sono ridotte della metà rispetto al 2017, appena 1.200 chilometri quadrati, e la scorsa estate 4mila persone, tra cui la famiglia di Rachid, hanno dovuto abbandonare le loro case. Non solo a sud: secondo l’Onu ogni anno l’Iraq perde 250 km quadrati di terre fertili a causa della desertificazione. Il timore di una fuga di massa, già iniziata, è concreto: in pochi anni, se la situazione non cambia, milioni di iracheni lasceranno le campagne per rifugiarsi in città, trasformandosi da contadini a «cittadini» poveri, lavoratori non specializzati.
Con il 30% della popolazione irachena concentrata nelle zone rurali, la stima la dà il ministro dell’Ambiente: quattro milioni di sfollati interni nei prossimi otto anni se non si risolve la crisi idrica. Una crisi che in breve tempo diventerà economica e sociale, in un paese già diviso e privo di una visione comune sul futuro post-Isis.
Se poi verrà menola produzione nei tradizionali bacini di agricoltura e allevamento, Baghdad sarà costretta a importare grano, latte, uova, carne per dare da mangiare a città sempre più numerose. Proprio qui, nel cuore della Mezzaluna fertile, spezzata dalle dighe costruite dai paesi vicini.
Sono già dieci sull’Eufrate e sei sul Tigri solo in Turchia, parte del mega progetto di irrigazione e di energia elettrica di Ankara, il Southeastern Anatolia Project (Gap). Il piano ne prevede di più, 22 dighe totali e 19 impianti idroelettrici sui due fiumi al confine con Siria e Iraq, con l’obiettivo di irrigare 1,7 milioni di ettari di terre turche e di produrre 27 miliardi di kWh l’anno. Così la scorsa estate il livello dell’Eufrate si è abbassato ancora, mezzo metro di profondità, la metà del livello di aprile. Per l’Iraq è un dramma: il 70% dell’acqua che utilizza la portano i due fiumi.
SE NELLE PALUDI i bovini sono scheletrici, nella regione di Bassora a morire sono le palme da dattero e gli alberi da frutta. Nella provincia ovest di Anbar è il riso che non c’è più, vietato dal governo la scorsa primavera perché richiede troppa acqua. Poco più a nord scompaiono le terre: secondo Munir al-Saadi, sindaco di al-Musharrah, sentito da Middle East Eye, «ogni mese tre contadini abbandonano la terra, i nostri villaggi si stanno svuotando. La metà dei 60 villaggi del distretto non esiste più a causa della desertificazione». Lo dice anche la Banca Mondiale: se nel 1991 l’agricoltura dava un impiego al 34% della forza lavoro irachena, nel 2017 si è scesi al 19%.
C’è chi si muove, lontano dagli Stati: è la campagna Save the Tigris, nata nel 2012 da una coalizione di ong irachene e internazionali che si battono per trasformare i due fiumi e la loro acqua da ragione di conflitto a piattaforma per la pace. Per il prossimo marzo hanno organizzato il primo Mesopotamian Water Forum: si terrà a Suleymaniya, nel Kurdistan iracheno, e vedrà la partecipazione di attori della società civile di Siria, Iraq, Turchia e Iran.
«IL GOVERNO TURCO sta costruendo numerose dighe sul fiume Tigri senza consultarsi con il governo iracheno e le comunità locali e senza compiere alcuno studio sugli effetti di simili progetti – scrive la campagna sul proprio sito web – Lo stesso fa il governo iraniano su fiumi affluenti del Tigri e il governo del Kurdistan iracheno. Le infrastrutture idriche vengono utilizzate per fini politici e militari nei conflitti, come dimostra la diga di Mosul. È necessario un cambiamento: l’acqua diventi strumento di pace e cooperazione tra tutti i popoli nei bacini di Tigri e Eufrate».
Per farlo, Save the Tigris propone il coinvolgimento delle comunità locali, della stampa, delle organizzazioni di base, dei centri ricerche dei paesi interessati. Mobilitarsi dal basso per salvare la Mezzaluna fertile.
di Chiara Cruciati, Il manifesto